Eleonora Gallitelli, pugliese, entra a Villa Nazareth nel 2005, si laurea in Traduzione specialistica e consegue un dottorato in Letterature comparate all’Università IULM di Milano. Tra le sue recenti traduzioni, La ragazza che scrisse Frankenstein di Fiona Sampson (UTET 2018), In extremis di Tim Parks (Bompiani 2018), Primo Levi, Una vita di Ian Thomson (UTET 2017).
Com’è nata la tua ultima fatica traduttiva?
Ho accettato la proposta di tradurre una nuova biografia di Mary Shelley con grande entusiasmo. Da lettrice e da traduttrice amo molto le biografie letterarie. Nel 2016 UTET mi aveva affidato la traduzione della biografia di Primo Levi, un ponderoso volume di oltre ottocento pagine a cui avevo dedicato un anno di lavoro e che mi aveva permesso di rileggere e riscoprire con uno sguardo adulto tutta l’opera di Levi, nonché le sue angosce di uomo ancor più che di sopravvissuto. Sapevo che lo stesso lavoro avrei dovuto fare per Mary Shelley. Ripercorrendo la vita dell’autrice, ho riletto Frankenstein e ho scoperto altri suoi romanzi meno noti (The Last Man, Mathilda), gli scritti politici e pedagogici dei suoi celebri genitori Mary Wollstonecraft e William Godwin, qualche poesia non proprio politicamente corretta di Percy Shelley e di Byron (che ho ritradotto ad hoc, per esigenze narrative), diari, epistolari, articoli di giornale risalenti ai primi decenni dell’Ottocento. La traduzione mi ha molto coinvolta, emotivamente e intellettualmente. Ho lavorato a stretto contatto con il revisore per sbrogliare i costrutti sintattici più involuti e sciogliere alcuni dubbi interpretativi. È stato un lavoro bellissimo.
Quali spazi offre oggi il mondo dell’editoria a giovani scrittori e traduttori?
Oggi si traduce tantissimo, soprattutto dall’inglese. Quindi, almeno teoricamente, lo spazio c’è. Di fatto, però, non è facile ottenere il primo contatto. Bisogna essere pazienti e propositivi. Oltre a coltivare il proprio talento individuale, che dovrebbe essere l’ovvio presupposto per qualsiasi collaborazione professionale duratura, credo sia importante consolidare i rapporti con gli editori mostrandosi puntuali, affidabili e cortesi. Un altro aspetto per me importante è il confronto con i colleghi. Oggi più che in passato biblioteche e associazioni (come AITI o la sezione “traduttori editoriali” di Strade) organizzano seminari e incontri di approfondimento per traduttori in diverse combinazioni linguistiche e con diverse specializzazioni. Incontrarsi per parlare dei libri che si stanno traducendo mi sembra un’ottima scusa per uscire dal proprio scriptorium e confrontarsi su vari aspetti legati al proprio mestiere: la lingua della traduzione, i libri pubblicati in Italia negli ultimi anni, la figura del revisore, il ruolo dell’editor, le attese dei lettori e così via.
La traduzione è in fondo una forma di abbattimento di confini. Cosa può insegnare l’esperienza del traduttore all’uomo contemporaneo?
Traducendo ci si pone in un atteggiamento di ascolto per cogliere la voce del testo, il tono e il registro, lo stile dell’autore. Volgere un testo in un’altra lingua richiede il massimo rispetto per il cosa e il come dell’originale, quindi per l’altro da sé. Come in tutti i rapporti gerarchici – il lavoro del traduttore è inevitabilmente subordinato a quello dell’autore, senza il quale non avrebbe la sua ragion d’essere – il rischio è di incorrere nel migliore dei casi nell’angoscia dell’influenza o nell’equivalente letterario della sindrome di Stendhal, nel peggiore in un rifiuto dell’originale, per i più svariati motivi. Il confine fra traduttore e autore è dunque ineliminabile. D’altro canto, il piacere estetico della traduzione, nella sua doppia natura di lettura profonda e creazione vicaria, è un elemento affascinante e altrettanto inconfutabile. Forse è per questo che si continua a tradurre per compensi non sempre adeguati e con scadenze a volte disumane. Sarebbe auspicabile un giusto equilibrio fra un appassionato coinvolgimento nel testo che si traduce e un sano distacco intellettuale, per non dimenticare che anche il traduttore, come “operaio della penna” e autore vicario, ha i suoi diritti.
(A cura di Rosarita Digregorio e dell’Associazione Comunità Domenico Tardini)