Il rapporto fra arte e spiritualità nel secolo scorso ha registrato imprevedibili traiettorie. Basti citare tre esempi significativi proprio per la loro bizzarria. Primo: Hugo Ball, il rivoluzionario anarchico animatore del Cabaret Voltaire, laboratorio di sperimentazione dadaista, il quale, nel 1923, ritiratosi nella campagna elvetica, animato da una vocazione ascetica, compone un saggio teologico dal titolo “Cristianesimo Bizantino”. Secondo: Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo, movimento radicalmente antipassatista, che nel 1944, compone la sua ultima opera letteraria, intitolandola “L’aeropoema di Gesù”, rinnegando in parte la sua verve anticlericale e iconoclasta. Terzo: Evgenij Kamzolkin, uomo dalla profonda fede religiosa, membro della società mistico-artistica “Leonardo da Vinci”, autore del simbolo della falce e martello che nel 1918 viene eletto dal quinto Congresso dei Soviet come emblema ufficiale dell’URSS, entrando di diritto nella storia della cultura del Novecento.
Se, pertanto, anche all’interno delle avanguardie storiche, tracce della ricerca di un infinito sono ben evidenti nelle creazioni dei loro protagonisti, dobbiamo chiederci se nelle pratiche artistiche odierne permane una relazione con l’Assoluto, oppure regna sovrana l’autoreferenzialità, talvolta inaccessibile, dell’individuo – artista? Proprio le questioni celate dietro questo interrogativo sono state indagate da padre Marko Ivan Rupnik, gesuita sloveno, mosaicista di chiara fama, nonché direttore del Pontificio Istituto Orientale – Centro Aletti, che, lo scorso 19 febbraio, ha accolto una delegazione di Villa Nazareth nella Chiesa Nostra Signora del Santissimo Sacramento e dei Santi Martiri canadesi.
Motivo dell’incontro è stata la prima tappa del nuovo itinerario dal titolo “Abitare la luce”, un percorso dedicato agli spazi liturgici contemporanei, pensato dall’Associazione Comunità Domenico Tardini in sinergia con le residenze universitarie di Villa Nazareth. La scelta per il primo appuntamento è ricaduta sulla parrocchia del quartiere Nomentano, edificio che sulla facciata ospita un mosaico realizzato proprio da Rupnik.
Il gesuita sloveno ha illustrato il programma iconografico dell’opera colossale, montata sulla parete da una squadra di 15 artisti, di 8 nazionalità diverse, appartenenti a 5 chiese cristiane diverse, davanti a un gruppo rapito dalla sua catechesi. Soffermandosi sul concetto di autorialità dell’opera dell’arte, ed in particolare del mosaico dei Santi Martiri Canadesi, condannando l’ipertrofia che sovente caratterizza l’ego dell’artista contemporaneo, Rupnik ha precisato:
“L’artefice di tutto ciò di cui abbiamo parlato è lo Spirito Santo. È presente sulla facciata della chiesa, ma non è facile vederlo, bisogna un po’ cercarlo nel simbolo della colomba in bianco, oro e rosso. Lo Spirito Santo è la Persona divina più kenotica, più umile, che è sempre in funzione e al servizio dell’altro: o di Dio Padre, o del Figlio, o dell’umanità, o del creato. Lui fa sempre emergere l’altro. Ma è proprio Lui che ci fa cambiare il pane in Cristo. È Lui che ci convince che l’amore vince perdendo e vive morendo. È Lui che ci convince della verità dell’amore. È Lui che fa parlare anche le pietre…”
Nella seconda parte dell’incontro, Rupnik, sollecitato dalle domande poste dalla delegazione di Villa Nazareth, ha raccontato la sua conversione, da rivoluzionario astrattista attratto dalle sirene del mercato dell’arte, a mosaicista figurativo al servizio della Chiesa e della preghiera della comunità cristiana.
Interrogato sull’approccio spesso problematico che oggi si registra accostandosi all’arte contemporanea, il gesuita sloveno ha offerto un’interessante chiave di lettura, ispirata dalla meditazione di alcuni testi di Romano Guardini: “Nonostante ogni discorso si possa fare sull’arte, ben pochi hanno un autentico rapporto con essa. La maggior parte sente sì qualcosa di bello; conosce spesso stili e tecniche; talvolta ricerca anche soltanto quanto ci può essere di materialmente interessante o di attraente ai sensi, L’autentico rapporto con l’opera d’arte non ha nulla a che vedere con tutto ciò. Esso consiste nel mettersi in silenzi, raccogliersi, entrare, guardare con sensi desti e anima aperta, spiare, rivivere. Soltanto allora si dischiude il mondo dell’opera d’arte”.