Un ricordo di Don Achille ad un anno dalla sua scomparsa. Di Bruno Silvestrini
Un sacerdote in pace con Dio, con gli uomini e con sé stesso. Questo è il Don Achille, come amava farsi chiamare, impresso nella mente di chi l’ha frequentato e conosciuto da vicino. Un sacerdote dalla fede granitica, che non si sprecava a sostenere l’esistenza di Dio, creatore e governatore dall’alto dei cieli dell’universo. Forse che un sasso si rigenera su sé stesso o che un vivente rinasce spontaneamente? Questo osservava pacatamente a chi ne dubitava. Perché non può essere altrimenti. Così dichiarava di credere in Dio anche Isaac Bashevis Singer, al pari di tutti i suoi antenati ebrei.
Un sacerdote fermo nella sua fede, ma aperto al dialogo e al confronto. Monsignor Claudio Maria Celli, uno dei suoi più stretti collaboratori, lo ricorda come “un uomo capace di costruire ponti e non muri; un uomo attento ad accogliere, attento a capire, attento a cogliere le movenze più profonde dell’umanità”. Un sacerdote che sollecitava, e ascoltava con attenzione, l’opinione scientifica sui temi religiosi. Il libero arbitrio, ad esempio, che la genetica riconduce a ciò che non è rigidamente prefissato nel genoma. O il controllo delle nascite mediante i giorni infertili della donna, che la biologia vede piuttosto come momento di fertilità, in preparazione dell’utero all’impianto dell’ovulo fecondato. O l’immortalità dell’anima. Lo spunto a parlarne l’aveva offerto Don Achille stesso, regalando a un amico scienziato il De Rerum natura. Contrassegnato nel punto dove Tito Lucrezio Caro confuta l’immortalità dell’anima:
“Come, inoltre, vediamo che il corpo s’ammala
e soffre di acuto dolore, così
l’anima cade in affanno e in lutto e in paura:
dunque partecipe è anch’essa della morte.”
Perché quando l’uomo è invaso dal vino
e il calore si sparge per entro le vene,
le membra si fanno pesanti, tremanti le gambe,
la lingua s’intoppa, la mente s’offusca,
smarriti nell’orbita ruotano gli occhi,
scoppiano grida, singulti, litigi.
Perché tutto questo, se non perché la violenza
ardente del vino suole sconvolgere l’anima,
scomporla all’interno del corpo medesimo?”
Lo scienziato vedeva l’anima nel genoma, il “progetto della vita” di Renato Dulbecco. Ne espone le proprietà stupefacenti. Contiene istruzioni scritte sugli stessi macchinari che le traducono in pratica. A differenza dei progetti dell’uomo, che senza un intervento esterno rimangono lettera morta, ha una sua capacità autonoma di realizzarsi tenendo conto del disegno iniziale, ma sapendolo anche adattare alle condizioni del percorso. E’ delicato, perché basta il semplice calore di una fiamma per distruggerlo, ma nello stesso tempo indistruttibile, perché distribuito in bilioni di bilioni di copie affidate a ciascun vivente. E’ unitario e poliedrico, perché da un lato accomuna tutti, ma dall’altro consente a ciascuno d’incidere sul proprio progetto un’esperienza specifica ed unica, che lo distingue perfino dal suo gemello monocoriale, dotato di un genoma identico al suo. È da questo progetto, stampato su un infinitesimale grumo di materia, che si diparte il percorso della persona umana: il feto, l’embrione, il neonato che si affaccia sul mondo, il bambino, l’adulto che ne esprime al meglio le potenzialità, l’anziano. Con lui la persona umana decade, fino a spegnersi. Non si spegne l’anima, che pulsa nella vita in tutte le sue espressioni. Una vita che secondo la Genesi, nell’interpretazione dello scienziato, Dio trasmette all’universo squarciando le tenebre che prima lo avvolgevano. “Mi piace”, commentò Don Achille questa rappresentazione scientifica. Le sue parole lasciavano intendere che alla stessa conclusione si possa arrivare lungo percorsi diversi.
La meraviglia della cultura. Così Don Achille esprimeva questo concetto, così titolava gli incontri multiculturali di Villa Nazareth. Lui si era diplomato nel Liceo classico Torricelli di Faenza, una scuola che punta tutto sulle capacità critiche e razionali dell’uomo. La sua vocazione sacerdotale era maturata dopo, nel Seminario dove i giovani sono preparati al sacerdozio. Si era contemporaneamente laureato in Lettere classiche nell’Università statale di Bologna. Da sacerdote, aveva poi frequentato il Sant’Apollinare e la Pontificia Accademia Ecclesiastica, conseguendovi il Dottorato in Utroque iure e seguendovi i Corsi di specializzazione, destinati ai diplomatici della Santa sede. Dove le materie d’insegnamento sono giuridiche, oltre che religiose. Questi i tratti di una carriera che, iniziato da minutante nella Segreteria di Stato Vaticana, si sarebbe conclusa nel Collegio cardinalizio, all’interno del quale si designa il Sommo Pontefice. Così ne parlava Don Achille nel suo diario. “Ho sempre sognato di gettarmi a capofitto nel sacro ministero, in mezzo al popolo. Quando mi riesce di essere a contatto con le anime sono proprio soddisfatto”.
Un ministero sacro, ma laborioso. Così ne parla Don Giuseppe Bonfrate, uno dei giovani di Villa Nazareth che lo ha seguito nella carriera sacerdotale. “Quasi tutto il suo tempo era assorbito dal lavoro d’ufficio — analisi dei problemi, penetrazione delle cause, previsioni delle conseguenze — che, però, non rinnegava la sua indole, intravedendo dietro ciascun foglio un volto, una storia, germinando quella sua esclamazione divenuta ormai proverbiale, anche le carte sono anime. Non si preoccupava di cosa mettere in valigia, ma studiava e ristudiava le carte d’archivio, compulsava voracemente le biografie e le memorie dei grandi che si erano seduti ai tavoli delle trattative internazionali, che nel male e nel bene avevano segnato i destini delle nazioni. Prendeva nota con quella sua stilografica, che per chi lo conosceva sembrava pronta a correggere anche quanto ormai stampato da secoli”. Così continua a parlarne Don Giuseppe Bonfrate.
La Conferenza di Helsinki (1975) e i successivi impegni di Vienna (1986-1989), dove ha preso corpo la nozione più chiara, più estesa ed efficace di libertà religiosa. In mezzo il Concordato con lo Stato italiano (1984), che riflette e anticipa, nel loro significato profondo, la Pacem in terris, la Gaudium et spes e Dignitatis humanae: il riconoscimento del diritto ad adorare Dio secondo il dettame della retta coscienza. ll coraggioso documento conclusivo dell’Assemblea ecumenica di Basilea (1989), che tra l’altro afferma: “Noi non siamo nella posizione di poter parlare come se fossimo in completo possesso della verità ultima. Le chiese e i cristiani hanno fallito sotto molti aspetti e non sono sempre vissuti all’altezza delle esigenze della chiamata di Dio. Per troppo tempo siamo stati ciechi riguardo alle implicazioni e alle esigenze del Vangelo relative alla giustizia, alla pace e alla salvaguardia del creato. Insieme con gli altri abbiamo bisogno di un nuovo inizio. Poi l’incontro di Parigi (1990), dove si sono poste le basi per la creazione dell’OSCE (1995), quale organo di garanzia di una coesistenza pacifica, con l’affermazione del ruolo positivo delle religioni.
Al centro di tutto il Concilio Vaticano II. Ritornando a Don Achille, così si esprime in un’intervista. “Con il mio caro e fraterno amico il cardinale Carlo Maria Martini, nel corso di questi anni ci siamo interrogati, tante volte, su quanto fosse necessario e urgente cercare un nuovo linguaggio per parlare all’umanità di oggi e in particolare alle nuove generazioni e dare risposte adeguate alla modernità. La sfida che attende la Chiesa è proprio quella di uscire dai ristretti ambiti delle sagrestie, in un certo senso di declericarizzarsi anche con il proprio laicato e vivere autenticamente il Vangelo. L’elezione di Papa Francesco non ha soltanto significato la novità della provenienza del successore di Pietro da un Paese lontano. Il suo stile di vescovo di Roma ci suggerisce non solo di recuperare l’universalità della missione della Chiesa cattolica, ma anche invita tutti noi cristiani a rinnovare il linguaggio dell’annuncio di fede. La sua elezione, che si lega idealmente al magistero dei suoi diretti predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ci sollecita ora più che mai a riprendere le tematiche che erano al centro di tante discussioni conciliari; a riscoprire, facendo tesoro delle lezioni di uomini profetici come Lercaro e Dossetti, alcune priorità costitutive dell’identità ecclesiale, impressa dal Concilio II: l’opzione preferenziale per i poveri, il proseguimento della pace tra i popoli e il dialogo con i lontani e i non credenti. In fondo la faticosa attuazione del Concilio, nelle intenzioni di Giovanni XXIII, era ed è ancora oggi un compito aperto: rendere accessibile il Vangelo al cuore di tutti”.
Villa Nazareth è il luogo dove il Cardinale Domenico Tardini 12 aprile 1946 apre il cancello di Via della Pineta Sacchetti 29 ai primi bambini provenienti da varie regioni d’Italia. Sono poveri, ricorda Don Giuseppe, ma tra i poveri sceglie i più intelligenti. Ad essi offre istruzione e formazione extracurriculare, quasi a inseguire un’utopia rinascimentale educandoli alla cura dell’umano, alla sensibilità estetica, al plurilinguismo. Per quanto ambigua sia l’espressione, l’ambizione di Domenico Tardini è di formare dei leader. Ma leader significa “che vengono educati a far del bene agli altri”. La missione di Villa Nazareth non si limita all’offerta di opportunità. È anche una visione che nutre l’inclinazione a pensare evitando le insidie della vanità intellettuale, con la disposizione a farsi carico degli altri. Il nome «Nazareth» rinvia al tempo trascorso in modo nascosto da Gesù; il luogo in cui avviene la sua crescita e la sua formazione in attesa della sua missione pubblica. Quel luogo, ora, ha il significato di un collegio universitario per studentesse e studenti, che mette al centro la parabola dei talenti. Il cui frutto non avrebbe significato cristiano se fosse ridotto all’affermazione, anche eccellente, di sé stessi senza contro gli altri. Il talento fruttifica se si declina in servizio-diaconia, richiedendo persone che non si spaventino di faticare per coltivare un pensiero sulle cose della vita favore degli altri, che siano dialoganti, educati alla libertà e alla responsabilità. Nelle sue note Domenico Tardini, pensando al senso di questa istituzione, scriveva: “Abbiamo scelto i bambini più poveri e tra loro i più intelligenti, per una educazione completa e ben fatta. Il popolo ha bisogno di apostoli, di persone intelligenti, colte, virtuose, disinteressate, ricche di iniziative e di spirito di sacrificio, che sentano il desiderio di fare del bene agli altri”. Essere a servizio sempre, disposti ad arrischiarsi avendo nel cuore e nella testa la convinzione che non si possa perseguire il proprio bene senza preoccuparsi di quello degli altri, soprattutto gli ultimi.
È lì che, succeduto a Domenico Tardini, Don Achille trova la freschezza della sua missione sacerdotale. È ancora lì che, nel periodo della Contestazione giovanile violenta, in piena notte Don Achille rincorre nei Commissariati di Polizia i ragazzi di Villa Nazareth arrestati per reati comuni. Garantisce per loro e, in attesa della riapertura di Villa Nazareth, li ospita in appartamenti affittati dove riprendono e completano il loro Corso di studi. In un ambiente dove sulla contestazione giovanile si sarebbe aperto un dibattito e un confronto, aperti e costruttivi. “Sono figli adottivi, come avrei potuto abbandonarli nel momento del bisogno?” Così confidava Don Achille agli amici intimi.
C’è un principio unificante che lega questa duplice carriera sacerdotale, pubblica e privata. Ecco come è espresso dalla religione “abramica”, per usare le stesse parole di Don Achille, “le tre fedi rivolte guardano ad Abramo, l’amico di Dio secondo il Corano”.
- Non fare agli altri quello che non vuoi che essi facciano a te (Rabbi Hillel, Shabbat 31a);
- Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro (Gesù, Matteo 7,12, Luca 6,31);
- Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso (Muhammad, 40 Sunna di an-Nawawi 13).
- Lo stesso principio appartiene, seppure in una stesura più articolata, alla Costituzione italiana del 1946, lo stesso della Fondazione di Villa Nazareth. All’Articolo 2 essa recita:
- La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Appartiene prima ancora, ai bilioni di cellule che compongono il corpo umano. Comprendono il macrobiota, intestinale e cutaneo, contrassegnato da una “cittadinanza” genetica diversa. Vi convivono svolgendovi pacificamente funzioni complementari, che garantiscono il comune, reciproco benessere. La cellula maligna che si chiude sul proprio bene uccide l’organismo, assieme a sé stessa.
Fai del bene e ne sarai gratificato: questa è la lezione di vita, religiosa e laica insieme, che Don Achille ci ha lasciato. Questa rievocazione non sarebbe completa, tuttavia, senza alcuni piccoli, affettuosi ricordi personali. Una casa dei nonni dove allora, come oggi, i genitori appoggiavano i loro bimbi. Dove trovavano l’ascolto e gli insegnamenti che i genitori, indaffarati nel lavoro, non potevano assicurare. La casa di nonna Paolina, circondata da un bambinello, seduto nel suo sgabellino, e un ragazzo, appoggiato allo stipite di una porta. Incantati entrambi dalle storie di nonna Paolina, dalle sue parabole, dalle sue risposte. Era una donna pia, che all’imbrunire recitava il rosario assieme alle amiche, ma alla domanda del più piccino, che chiedeva spiegazioni su una delle imprecazioni più comuni in Romagna, ecco cosa rispose: “Cos’è una puttana te lo diranno quando sarai più grande, ma ricordati, quando te ne parleranno male, che fanno contente tante persone.”
La Chiesetta dell’Università la Sapienza, dove Don Achille celebra il matrimonio di un ricercatore in procinto di partire per lidi lontani, ma che li sarebbe un giorno ritornato. Ancora, le nozze dei figli di quel ricercatore e i battesimi dei suoi nipoti, con Don Achille che conversa affabilmente con gli amici e i parenti.
Un incontro conviviale a ridosso dell’elezione di un Papa, col Cardinale Achille Silvestrini che si congeda da un suo confratello con queste parole: “Per piacere, per rivederci non aspettiamo un’altra morte di Papa”. Il confratello si chiamava Fiorenzo Angelini.
Per finire, la “grande e infinita tenerezza” con la quale Don Achille parlava di Federico Fellini e delle sue opere. E come Federico Fellini ne parlava, sorprendendosi di quanto quel “cardinalone” potesse essere spiritualmente autorevole e, insieme, laico, per la sua capacità di entrare direttamente in contatto senza le maniere oblique tipicamente clericali, autentico, libero da pregiudizi, sinceramente interessato e subito empatico, sempre accogliente e discreto.”