“Coscienza: oltre i confini del nostro essere?” Questo l’interrogativo che ha fatto da fil rouge nel corso della Summer School conclusiva dell’anno accademico 2017/2018, organizzata da Villa Nazareth nella consueta location del Centro Culturale “Gustav Mahler” di Dobbiaco.

Il tema è stato affrontato nell’arco di tre giornate di conferenze, sia in termini filosofici che scientifici. Ad aprire i lavori è stato lo psicologo prof. Guido Brunetti che, interrogandosi circa il rapporto esistente tra io, coscienza, mente e cervello ha confermato l’impossibilità di individuare una precisa definizione di queste componenti della psiche umana. La dimensione fenomenica del provare qualcosa infatti, secondo numerosi esperti, risulta incompleta. Oggi sembrerebbe esserci un dualismo delle proprietà, anziché la duplice sostanza di res cogitans e res extensa, come descritta da Cartesio. C’è una parte della mente che ancora non può essere trattata in termini funzionalisti; come direbbe Leibniz, la macchina del pensiero eccede le sue stesse funzioni. La mente tuttavia ha una base cerebrale. Il professore ha quindi approfondito il concetto di persona, intesa come entità dotata di natura spirituale secondo la concezione triadica: corpo, psiche e anima.

A conclusione della prima giornata di lavori è intervenuto il prof. Massimo Marraffa il quale ha enucleato le principali posizioni filosofiche elaborate nella storia del pensiero sull’autocoscienza e l’idea di sé, pervenendo alla dicotomia platonico-cartesiana: fra mondo sensibile e realtà ideale. Le suggestioni teoriche fornite dalla relazione, hanno dato seguito ad un dibattito ricco di questioni attinenti al pratico, circa le quali Marraffa ha espresso competenti e solide considerazioni, tangendo nuclei semantici importanti, quali le connessioni degli argomenti a tema con teorie e pratiche delle più svariate provenienze disciplinari: l’acquisizione del linguaggio, la relativizzazione dell’idea di sé alla pratica educativa e la riduzione a nuovi e numerosi “linguaggi” delle questioni attinenti il problema della relazione. Di particolare valore, nella sua semplicità, la risposta del prof. Marraffa alla domanda di uno studente sull’approccio alle fonti come descrittivo del sistema dell’autocoscienza: in sostanza, l’avanzamento del sapere comporterà sempre la necessità di ripensare la macchina pensante, il discorso sulla conoscenza e quello sulla coscienza si rendono così proiettati verso un costante e metodico lavoro di ripensamento e assestamento, sulla base del progresso del Sapere.

Nella seconda giornata di lavori il prof. Francesco Orzi, docente ordinario di neurologia presso l’Università La Sapienza di Roma, ha approfondito il funzionamento del cervello e della coscienza da un punto di vista neurologico. “Perchè il pollo attraversa la strada?”, con questa battuta ha cominciato la sua relazione, spiegando che l’azione del pollo può essere intesa come un risultato motorio della variabilità con cui gli stimoli sensoriali vengono elaborati dal cervello. L’analisi è quindi proseguita ripercorrendo la  storia delle le scoperte scientifiche sul cervello. Per lo studio della biologia dello sviluppo e dell’apoptosi si è utilizzato l’organismo modello Caenorhabditis elegans, un verme lungo circa 1 mm che vive nel suolo, in regioni temperate. Le prime ricerche su C. elegans sono state avviate nel 1962 da Sydney Brenner.

Sono stati illustrati i casi dei circuiti del reward, che sono alterati nelle persone tossicodipendenti, o della locke-in syndrome che consiste nella lesione a livello del tronco encefalico deputato alla regolazione motoria. Infine, il professore ha spiegato come la consapevolezza non possa essere osservata se non

attraverso fenomeni motori o surrogati: sia vigilanza che consapevolezza hanno comunque basi anatomiche.

Il terzo giorno di lavori si è aperto sugli aspetti bioetici del fine vita, introdotti dal prof. Francesco D’Agostino, ordinario di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Il professore ha descritto il tema come lacerante e divisivo, che crea conflitti anche all’interno del mondo cattolico. Ha precisato che ridurre l’identità cattolica ad alcuni punti dottrinali sul tema fine vita è un’esagerazione notevole. La bioetica è nata con una grande aspirazione: quella di poter creare un orizzonte valoriale condiviso da tutti, credenti e non credenti, aventi per oggetto il bios e i suoi diritti. Ma l’idea di bioetica condivisa oggi è in crisi, poiché il mondo in cui viviamo è eticamente pluralista. Il pluralismo non è una lieta convivenza: è conflitto. Per dirla alla Weber, è la forma attuale del politeismo. La relazione si è poi distillata in tre punti, precisamente circa la crisi della medicina ippocratica per la quale il medico ristabilisce gli equilibri naturali deviati dalla patologia, in secondo luogo il venir meno dell’unitarietà del protocollo terapeutici, sostituito da un ventaglio di cure disponibili per una malattia; infine il principio dell’autodeterminazione del paziente, secondo il principio del consenso informato.

In Italia il parlamento ha approvato la Legge 129 del 2017, relativa al testamento biologico. L’obiettivo della legge, continua il professore, era di fornire ai medici orientamenti operativi definiti. Il paziente può decidere di interrompere le terapie ma non può chiedere cose che vanno contro:

1. il diritto positivo: l’eutanasia ad esempio é vietata dal codice penale e quindi il paziente non lo può chiedere, può però chiedere di sospendere le cure;

2. le buone pratiche cliniche, se ho una carie non posso chiedere che mi sia tolto il dente;

3. la deontologia del medico, il medico può spiegare al malato che quello che gli sta chiedendo va contro la sua etica morale.

La legge prevede che il paziente possa mandare indicazioni al medico per mezzo del testamento biologico. Se mi troverò in una situazione patologica che implica il mio stato vegetativo, non voglio essere oggetto di una terapia. Il medico deve rispettare il testamento, ma deve rientrare nei tre limiti.

Secondo relatore della giornata è stato il dottor Andrea Polito, già accademico a Versailles e medico a Ginevra, che ha parlato dell’alterazione della coscienza dal punto di vista clinico. Dopo aver riportato una casistica di patologie e storie particolari utili ad introdurre il tema, si è approfondita la fisiopatologia del coma, in cui il cervello risulta diffusamente danneggiato. In aggiunta, la diagnosi di morte celebrale passa per alcuni controlli come quello del respiro, il controllo dei riflessi fotomotore, del riflesso oculocefalico, oculovestibolare, orofaringeo, carneale e carenale. Tra le cause del coma invece si annoverano i traumi, le sostanze tossiche, l’ipertensione endocranica, le malattie vascolari, metaboliche e terminali. La relazione si è infine concentrata sui conflitti tra medico e famiglia del paziente, dovuti a cause quali la confusione linguistica, la mancanza di fiducia o le obiezioni religiose. In merito a quest’ultime solo negli USA si contano 6 milioni potenziali di obiettori (shintoisti, ortodossi, ebrei, nativi americani, buddisti e musulmani). L’opt-out è una procedura medica di morte celebrale per motivi religiosi, per una durata limitata e senza cambiare la definizione clinica di vita o morte.

Da ultimo, il laboratorio pomeridiano sul tema del fine vita ha visto come protagonista la Signora Mina Welby. Monsignor Claudio Maria Celli ha aperto i lavori ponendo l’accento sul riconoscimento della dignità della vita, intesa come bene sommo dell’uomo. Celli ha ricordato la recente modifica al Catechismo della Chiesa Cattolica sul tema della pena di morte. Si riconosce che nessun uomo ha il diritto di togliere la vita ad un altro essere umano. Si tratta di un’affermazione di un’importanza enorme. In parecchie società si usa questo strumento come deterrente e si fa ricorso ad una soluzione così violenta e drastica per proteggersi da situazioni ritenute particolarmente gravi.

La Signora Mina Welby ha raccontato la storia vissuta insieme al marito Piergiorgio. Ha cominciato con la lettura di alcuni suoi scritti. Ha poi ricordato gli anni di quando incontrò per la prima volta Piergiorgio a Roma e dei successivi anni in cui lo ha costantemente sostenuto, facendo di quel sostegno la cifra della loro vita insieme. “Era stato in grado di riprogrammare la propria vita”, ha affermato la Welby; si era dedicato alla pittura, alla caccia e alla pesca. Poi arrivò l’insufficienza respiratoria. Fu proprio la Signora Mina che nel luglio 1997 chiamò i soccorsi in seguito ad una crisi respiratoria di Welby, il quale, per sopravvivere, fu attaccato ad un respiratore automatico, e in seguito, col suo permesso una volta uscito dal coma, fu sottoposto ad una tracheotomia. Viene raccontato anche l’aneddoto di quando Piergiorgio rientrato a casa dall’ospedale chiese al padre di sparargli: egli rifiutò, promettendo però di impedire il procedere dell’accanimento terapeutico. Nel 2006 scrive al Presidente della Repubblica Napolitano e chiede indirettamente al parlamento che si approvasse una legge sull’eutanasia e sul testamento biologico. Nel dicembre dello stesso anno il tribunale di Roma respinse la richiesta dei legali di Welby di porre fine all’accanimento terapeutico, dichiarandola «inammissibile», per via del vuoto legislativo su questa materia. Si arriva poi a quel 20 dicembre in cui Piergiorgio Welby fu sedato e gli fu staccato il respiratore. Accanto vi era la moglie e alcuni amici tra cui i compagni della sua battaglia politica come il radicale Pannella.

Giovanni Marcotullio, di formazione umanistica, filosofica e teologica, specializzato in patristica è intervenuto successivamente sul tema del fine vita. Si è definito in linea con il Magistero della Chiesa Cattolica ed è stato il primo giornalista a recarsi a Liverpool per seguire il caso del bambino Alfie Evans. Il mondo pro life è una micro nicchia: ma il caso di quel bambino divenne un caso mainstream. Marcotullio fu mandato in Inghilterra dalla moglie. Racconta dell’incontro con la famiglia di Alfie col Papa e della mobilitazione organizzata dalla Segreteria di Stato. Racconta la vicenda giudiziaria che non ha dato ascolto alle richieste della famiglia Evans e cita anche le 145mila sterline di risorse pubbliche spese per il caso.