Nel corso dell’ultimo secolo, l’uomo ha abusato e quasi esaurito le risorse fornite dalla Terra. Questo ipersfruttamento è andato di pari passo con l’aumento dell’inquinamento ambientale e della temperatura globale e con l’incremento della popolazione mondiale, che è passata dalla cifra di un miliardo agli inizi del 1800, gli anni della Prima Rivoluzione Industriale, ai quasi otto miliardi di oggi. Con questo scenario e con previsioni di crescita demografica fino a quasi dodici miliardi nel 2100 è perentorio un cambiamento immediato nel nostro stile di vita, se vogliamo continuare a soddisfare i bisogni della popolazione attuale, e garantire un futuro alle generazioni che verranno.
Al futuro del nostro pianeta e delle specie che lo abitano – uomo compreso – è stato dedicato il seminario primaverile organizzato dagli studenti di Villa Nazareth intitolato “Alimentazione e pianeta. La sostenibilità da un punto di vista ambientale, economico e sociale”, realizzato grazie al contributo concesso dalla Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero della Cultura.
Proprio la carenza di risorse e, in particolare, il problema della maggior insicurezza alimentare cui stiamo andando incontro è stato l’argomento attorno a cui ha ruotato la prima giornata del seminario, grazie al contributo delle due ospiti: Silvia Lazzaris, giornalista freelance per la piattaforma Food Unfolded e Eva Alessi, responsabile consumi sostenibili del WWF Italia.
Le relatrici hanno spiegato come, già oggi, più di 800 milioni di persone soffrono la fame. Allo stesso tempo, un terzo di tutto il cibo prodotto a livello mondiale viene sprecato. Come si è arrivati ad un paradosso del genere? Esiste un metodo per uscire da questo pericoloso circolo vizioso? La percezione del valore del cibo è cambiata con la diffusione dei primi supermercati nel primo dopoguerra negli Stati
uniti, mentre in Italia ciò è avvenuto solo nel secondo dopoguerra. Se prima dell’avvento di questi un cittadino medio spendeva il 70% dei propri guadagni in cibo, i supermercati hanno iniziato a proporre cibo facilmente accessibile a costi più convenienti. Ciò ha creato un sistema di produzione per cui il cibo non era più un bene di lusso e chiunque poteva accedere ad alimenti non solo economici, ma anche
esteticamente più appetibili e più “esotici”. Il vero problema si è innescato quando la domanda del cittadino è diventata sempre più esigente e i grandi produttori hanno iniziato ad avvalersi di ogni strumento per rispondervi in modo adeguato, spesso trascurando l’aspetto etico.
Come spiegato da Lazzaris, il sistema di produzione alimentare è una coperta troppo corta, poiché produrre cibo a prezzi sempre più bassi comporta conseguenze socio-economiche, come il lavoro sottopagato, il caporalato, le aste a ribasso, ma anche gravi conseguenze ambientali come la deforestazione, la perdita di biodiversità, l’inquinamento delle acque ed emissioni di gas serra. Ci sono
anche conseguenze valoriali, come il “doppio fardello della malnutrizione”, per cui mentre una parte della popolazione mondiale continua a soffrire la fame, un’altra è affetta da obesità, malattia cronica, potenzialmente fatale, la cui incidenza, solo in Europa, è aumentata del 161% dalla fine degli
anni Novanta ad oggi.
Ma come cambiare lo stato attuale delle cose? Alessi, ad esempio, ha esposto le soluzioni proposte dalla campagna lanciata dal WWF Food4future: riprendere un’alimentazione a base prettamente vegetale con moderate quantità di proteine animali, scegliere prodotti da agricoltura biologica, che tutela la biodiversità ed è più rispettosa del benessere animale, comprare prodotti stagionali e a filiera corta, utilizzare più materie prime, ricordare che dietro a prezzi troppo bassi si nascondono scarsa qualità e insufficiente tutela del produttore. Si tratta, dunque, di pianificare uno stile di vita che preveda un’alimentazione sostenibile e sana per noi e il pianeta, perché, citando Mike Berners Lee “There is no Planet B” e non abbiamo altra scelta che cambiare il nostro comportamento se vogliamo letteralmente
salvare il mondo.

La seconda giornata di convegno è stata caratterizzata dalla partecipazione delle dott.sse Tiziana Zoccheddu, Operational Support presso il World Food Programme e la giornalista scientifica Agnese Codignola.
È innegabile che il nostro sistema di produzione è eticamente scorretto. Esso porta alla produzione di un quantitativo sufficiente a sfamare la popolazione globale, ma la distribuzione delle derrate è inefficace, al punto che, secondo una recente stima di Save the Children, ben il 12% della popolazione del pianeta patisce la fame. La sovrapproduzione in zone circoscritte del pianeta, assieme ad una cultura alimentare bulimica e viziata, fanno sì che circa un terzo del cibo prodotto vada sprecato. Pertanto, è senz’altro importante educare i Paesi ricchi a un consumo più consapevole, pur senza pretendere che questo basti a rimediare al problema. Per ridistribuire il cibo a livello internazionale è indispensabile un cambiamento sistemico.
La soluzione più immediata e semplicistica sembra quella di diventare vegetariani, ignorando problemi di
due tipi: salutare, in quanto il corpo umano necessita di una ragguardevole quantità di nutrienti che una dieta vegetale può garantire solo se estremamente bilanciata e affiancata da controlli medici periodici; logistico, perché, se tutta l’umanità diventasse vegetariana, per poter garantire il necessario apporto nutrizionale a tutti occorrerebbe un impiego di risorse enormemente maggiore di quello a cui la terra
può far fronte.
Inoltre, optare per il vegetarismo, risulta deleterio sotto altri aspetti. Di fronte all’enorme interesse che il tema ricopre per l’attenzione pubblica, i produttori dei surrogati vegetali, ma anche le multinazionali dell’agroalimentare, si sono impegnati per rendere gli alimenti palatabili con l’uso di coloranti, addensanti, aromatizzanti, correttori del gusto, zuccheri, sale e leghemoglobina. In particolare si è ricorso a quest’ultima proteina per soddisfare l’esplosione di richiesta modificando geneticamente il prodotto, nonostante questa sia cancerogena e ignorando il fatto che in Europa la modifica genetica sia ufficialmente illegale. Molti investitori e studiosi, inoltre, hanno individuato la più promettente frontiera dell’agroalimentare nelle carni coltivate (in vitro) e nelle agricolture 4.0. Sul piano nutrizionale, vari studi dimostrano che la carne coltivata risulta notevolmente più ricca da un punto di vista nutrizionale di quella tradizionale, in quanto costituita di tessuti grassi e muscolari accuratamente selezionati. È priva di ormoni e antibiotici, e le cellule da cui si avvia il processo di replicazione appartengono ad individui sani. Lo scarso numero di bestiame necessario scoraggia l’adozione di pratiche che infliggono sofferenze sugli animali, condannandoli a una misera e breve esistenza. Le risorse idriche ed energetiche necessarie sono nettamente inferiori, l’emissione di gas serra ridotta allo stretto necessario. Lo spazio impiegato per l’allevamento è ridimensionato, il che la rende particolarmente adatta ad una popolazione incline ad
addensarsi in grandi centri abitati. Altri esempi di idee innovative sostenibili sono le colture idroponiche o il consumo di insetti, verso cui siamo diffidenti a causa della nostra cultura alimentare, ma che di fatto sfamano circa 2 miliardi di persone. È fondamentale che si instauri una sinergia tra le varie iniziative, quelle di sensibilizzazione da un lato e quelle pratiche, di riutilizzo del cibo, dall’altro, ma soprattutto che si investa in progetti di alimentazione alternativa, che sebbene incontri spesso il nostro scetticismo, non sarebbe meno innaturale di tante altre abitudini ormai collaudate.