La parola su cui abbiamo voluto riflettere nell’ultimo numero del nostro periodico è “crisi”. L’abbiamo scelta perché viviamo in un tempo in cui la si sente nominare spesso associata all’economica, al clima, alle migrazioni e ultimamente anche alle relazioni internazionali. Grazie al contributo di Lamberto Iezzi approfondiamo questo termine attraverso una lente particolare, come facciamo sempre in questa nostra rubrica: la comunità.
Crisi
di Lamberto Iezzi
Come sovente accade, l’indagine etimologica può essere una via feconda per cogliere appieno il significato più autentico di una parola. Alle volte, però, ci troviamo a dover scavare attraverso stratificazioni semantiche complesse e talora contraddittorie, riflesso di umane vicende, storiche e culturali. È appunto il caso del vocabolo “crisi”.
Proviamo a riportare alla luce la freschezza originaria del termine: esso rimanda ad un mondo arcaico, rurale, a quell’esperienza che sta alle radici di qualsiasi civiltà, quando l’uomo, da cacciatore e raccoglitore, divenne contadino, imparando ad organizzare la coltivazione della terra. Il verbo greco κρίνω, da cui “crisi” discende, indica infatti l’atto del separare, con riferimento all’antico gesto della trebbiatura. È un’attività fondamentale dell’economia agricola, preceduta da un’altra, non meno vitale: la mietitura. Ed ecco che il pensiero corre spontaneo ad una celeberrima parabola evangelica, anch’essa di sapore agreste, quella della zizzania (Matteo 13,24-30): il padrone ordina ai servi di lasciare ai mietitori il delicato compito di dividere la zizzania dal grano. L’una andrà bruciata e l’altro riposto nel granaio. Separare i chicchi dalla pula e ancor prima il grano dalla zizzania, è operazione che richiede giudizio e attenzione. È discernimento, capacità di valutazione, distinzione, definizione. Vivere un tempo di crisi, nella dimensione personale, piuttosto che collettiva (con riguardo alle forme di organizzazione politica e sociale), equivale a camminare su un crinale (altro lessema derivato da κρίνω): uno spartiacque tra ciò che è stato e ciò che sarà. E questo richiama ulteriori pregnanti espressioni della sapienza evangelica: “le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5,17). E ancora, “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti”: una cesura rispetto al passato, con l’invito a vivere una vita nuova. È la prospettiva escatologica paolina del “già e non ancora”: “tu invece va’ e annunzia il Regno di Dio” (Luca 8,60).
La crisi fondamentale del nostro tempo trova per molti la propria definizione nella cosiddetta “postmodernità liquida”, nota espressione coniata da Bauman. Per il sociologo polacco, ci troviamo in una sorta di interregno, concetto di eco gramsciana. Il vecchio è morto, ma il nuovo non nasce: viviamo una crisi sistemica, in cui si sono sciolte vecchie certezze consolidate, senza la compensazione di nuove risposte rassicuranti. La possiamo interpretare come crisi economica, politica, sociale, culturale, ambientale, di valori, di relazioni, di identità, di fede … ma si tratta, in ultima istanza, di una crisi antropologica: ciascun individuo, e l’umanità nel suo complesso, vivono un senso profondo di incompiutezza e vulnerabilità. Eppure, questo può essere un tempo fecondo e decisivo. Infatti, come dopo la gravosa fatica della mietitura e della trebbiatura segue la festa cui tutti partecipano, così accade spesso dopo un periodo di crisi. A patto che essa divenga occasione di discernimento, di comprensione profonda rispetto a ciò che va abbandonato, mutato o ricostruito su fondamenta nuove, più solide e autentiche. L’alta statura morale e intellettuale della riflessione di alcuni autori potrebbe aiutarci in questo. Tra i più recenti, Weber e Jonas. Per il primo, la persona umana è chiamata a non perdere mai di vista le conseguenze del proprio agire. Il sociologo tedesco invita infatti a integrare l’etica dei principi con l’etica della responsabilità. Hans Jonas, dal canto suo, con l’opera “Il principio di responsabilità”, estende il perimetro di tale istanza in senso sia temporale sia spaziale, alle future generazioni e all’intera biosfera. Per Jonas, il livello raggiunto dal progresso tecnologico è divenuto una potenziale minaccia per il mondo (inquietudini che riecheggiano nel pensiero di Severino, il quale denuncia il rischio di una sorta di eterogenesi dei fini, con la tecnica che, dall’essere mezzo, diverrebbe essa stessa scopo). È quindi necessario che l’essere umano rinunci alla sua volontà di potenza e utilizzi responsabilmente la tecnica, rispettando la fragilità degli equilibri naturali.
Prezioso l’ausilio che in tale direzione ci dona il magistero della Chiesa, in particolare con la dottrina sociale, a partire dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII, per giungere alle encicliche di Papa Francesco. E proprio l’attuale Pontefice, in occasione degli auguri natalizi alla curia, nel dicembre 2020, ha offerto una confortante chiave ermeneutica di quella che definisce “crisi sanitaria, economica, sociale e persino ecclesiale che ha colpito il mondo intero”. Prosegue Francesco: “una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”, purchè si viva la crisi “alla luce del Vangelo”. Allora “non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio”.
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