Omelia della celebrazione delle esequie di Pier Silverio Pozzi, 10 ottobre 2020

di don Giuseppe Bonfrate

La parola di Dio che è stata proclamata in questa liturgia di cristiano congedo si rivolge a noi che proferiamo nel nostro cuore un nome a tutti caro, Pier Silverio.  Siamo messi di fronte a una storia lunga, ricca di amore, di esperienze, generosa, che nelle parole divine trasfigura l’umanità che le ha incarnate. Questa parola è uno spiraglio che ci permette di vedere la vita nella morte, che ogni volta ci sgomenta, ci lascia pensosi. La parola di Dio parla per noi, parla con noi, parla di noi, addensando ogni pensiero nella gratitudine per questa vita che vogliamo benedire. 

Nella Prima Lettera ai Corinzi abbiamo ascoltato tante volte la parola amore, vedendo scorrere la sua declinazione vertiginosa che contraddice la vanità e il potere, disarma l’ingiustizia, onora la verità, incorpora la mitezza, esalta la pazienza, glorifica la benevolenza, ci aiuta a ricordare e a sperare. Ricordare Silverio, riconoscendolo come chi questa Parola ha eletto a lampada ai suoi passi, configurandosi, ecco la speranza, in quella grandezza che non tramonta oltre la durata delle cose, anche le più insigni: tre cose restano, dice san Paolo: fede, speranza e amore; ma la più grande di esse è l’amore. E senza l’amore non ci sarebbe grandezza che resiste non solo al tempo, ma al senso, alla ragione di un’esistenza.

E poi quelle poche righe del Vangelo di Matteo, dove Gesù, per rendere chiara l’idea di cosa significhi fede, disperde le illusioni di chi si conforta in un dire vuoto di vita, in pensieri senza respiro, in parole senza carne. Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Fare la volontà di Dio. Tanti equivoci intorno a questo ammonimento, immaginando un Dio dispotico, che scava il suo spazio svuotandoci di libertà. Invece no, è volontà di Dio che si realizzi un mondo in cui la libertà sia libera, libera di scegliere il bene, e non essere costretta a compiere il male. Non è forse questo che domandiamo nella preghiera del Padre nostro? Liberaci dal male, libera la nostra libertà dalla sua morsa seduttiva, liberaci dalla sua ombra che si allunga sui nostri profili. E poi il Vangelo continua: Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. E qui possiamo capire che la Parola annuncia e ricorda. Ognuno a suo modo può comprendere che cosa sia la solidità di un’esistenza, l’inestinguibile sete di pienezza che la sostanzia. Per Silverio era la fede che non si dissipava in un dire vuoto, simile al rame risonante e allo squillante cembalo di chi vive senza metterci amore, e la verità nell’amore. Ci sono state stagioni della sua esistenza in cui i fiumi sono straripati e i venti si sono abbattuti, ma la casa non è caduta. La casa dei suoi affetti, delle sue passioni, di quello in cui riponeva la sua incondizionata fiducia, innocente, simile a quanto nel Vangelo è richiesto: se non diventerete come bambini, segreto della sua capacità di rimanere nella sua età, e nello stesso tempo farsi contemporaneo alle giovani generazioni.  Fiducia che lo rendeva talvolta incontenibile, per quella prodigalità che si spoglia per vestirci, negli inarrestabili racconti, nei discorsi e nelle attenzioni: quella casa ha retto gli urti della vita, e Silverio si è rivelato fedele, sempre con la schiena ritta. Nei suoi passaggi non ha voluto perdere nulla coltivando il desiderio di raccogliere e non disperdere, come è stato per le sue origini romagnole mai smentite nel suo radicamento romano; come è avvenuto coi suoi molteplici interessi, con i tanti traguardi raggiunti, che sono divenuti ulteriori partenze, fino all’ultimo. Era convinto che gli spazi non si occupano, ma si attraversano con l’unica urgenza che è favorire, col proprio servizio, che siano luoghi di libertà, di crescita, e di formazione alla responsabilità.

Ora, per meglio comprendere cosa significhi essere fondati sulla roccia, dobbiamo leggere secondo due movimenti quanto riceviamo da un’altra pagina evangelica, quella di Giovanni, che espande l’immagine della casa fondata sulla roccia. Questo il versetto: Chi rimane in me e io in lui, ci dice il Signore Gesù, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla (Gv 15, 5). I due movimenti: nel passato, i nostri ricordi insieme a Silverio, la sua testimonianza, ma ora, nello smarrimento della sua assenza, che ci fa temere d’averlo perduto, il futuro: chi rimane in me fa molto frutto. Insieme con Lida, frutti eletti, ci siete voi, Sabina e Andrea, e da voi con Piero e Alessia, Giulia, Emanuele e Matteo. E, ancora ci siamo noi, e quanti non sono riusciti a venire qui, oggi, in questa luminoso mattino di ottobre. In ognuno, la passione generatrice di Silverio ha affidato i semi dei suoi ideali, l’eco dei suoi racconti, con quella sua memoria prodigiosa che univa confini lontani facendoceli apparire vicini, intimi, coinvolgendo ciascuno in un passaggio testimoniale in cui la solidarietà tra generazioni, la convivialità delle differenze, la sacralità del mistero della libertà, diventano promessa di un frutto che ha bisogno della nostra vita per maturare. Sta venendo all’evidenza, fin da ora, che il frutto viene, verrà: i tanti messaggi pervenuti a Lida e ai suoi familiari, che intrecciano ai ricordi la sostanza della gratitudine per quanto Silverio è stato e ha fatto su piani professionali, civili, culturali e spirituali diversi, rendono visibile la forma di una comunità reale, solida, che resiste, anche lì dove poteva apparire ferita o tradita.

Silverio, che celebriamo nella fede della risurrezione dei morti, nella fede del Dio Vivo, rendendo onore alla sua storia, ha fissato, ora, le sue radici in cielo, trovando finalmente la pienezza di quanto ha voluto legare nella sua vita, non lasciando mai fuori Dio, e mai dietro o lontano nessuno di quanti ha incontrato. Per lui, ora, quel chi rimane in me ha un altro significato, ma non separato o reciso da quanto ha voluto realizzare fondando la sua vita sulla roccia, nella fede nell’umano e nel divino, mai disgiunti. Per lui, è una esperienza diversa, che oggi possiamo soltanto intravedere nella mestizia che addensa il nostro pianto. Quel rimanere è l’annuncio di una nuova realtà anche per noi. Rimanendo in Dio, consegnandosi a Lui, come è avvenuto due giorni fa, ultimo atto di un esercizio durato tutta la vita, anche Silverio rimane in noi nella misura che crescerà, si intensificherà la nostra capacità di sentirlo, vederlo presente, cercando il Signore. E per chi non riesce a dare un volto a questa fonte inesauribile di bene, attrattiva e attraente che è Dio, lo potrà scorgere cercandolo nelle impronte delle sue passioni, che si possono trovare sfogliando i tanti libri che le sue mani ci hanno dischiuso, nei tanti sentieri che ha aperto con la sua fiera fiducia che nessuno è inutile in questo mondo, incoraggiando la crescita, animando la speranza, contagiando l’entusiasmo di chi continua a cercare, a imparare, a desiderare, a mettersi a servizio. Cercando il Signore lo troveremo, anche senza averne ancora afferrato il nome, chiarito il volto, nella discrezione di quella che Silverio chiamava manzonianamente, affidandosi, Provvidenza. 

Il Salmo del Pastore, che abbiamo pregato tra la prima lettura e il Vangelo, esprime una verità insieme umanissima e divina: si parla di Dio che come un pastore si prende cura di noi, accompagnandoci lì dove finalmente ogni timore svanisce, dove la pace è aria che si respira, è prato che ci ritempra. L’abbiamo pregato pensando a Silverio in compagnia del suo Pastore. Ma c’è, ancora, qualcosa che non ci deve sfuggire, qualcosa che ci racconta un avvicendamento, qualcosa che ci fa comprendere quello che ci appare nella speranza, come pregustato, anticipato. Anche lui è stato in qualche modo pastore dei nostri cammini, conforto e sostegno nei passi incerti, generoso nel disporre davanti ai nostri progetti una visione larga, un orizzonte promettente, un ristoro pacificante, un prato erboso, una sicurezza, e con Lida tante volte ha imbandito la tavola dove sedersi significava credere che non ci sarebbero stati nemici capaci di dissipare la ricchezza dell’amicizia. Ora, mentre ci viene difficile pensarlo diversamente, lo cercheremmo nel passato, nei tanti frammenti di vita in cui c’è stato, ed era il dono più bello della sua generosità esserci, non mancare, farsi trovare. Il suono della sua voce forte, chiara come la lunga esperienza radiofonica l’aveva affinata, ci arriva, pare, da un tempo finito, che ci manca. Ma cosa significa aver cantato che il Signore è il mio pastore, e che nulla ci manca, se non portare il nostro cuore, la nostra mente, la nostra anima a credere che mentre già ci manca, egli col Pastore eterno, approssima quell’eternità in noi, trasformando la sua assenza in presenza, che dovremo imparare a riconoscere. 

E continuerà a guidare i nostri passi.