Intervista alla prof.ssa Emma Fattorini
In occasione del centenario dalla nascita del cardinale Achille Silvestrini, il 7 ottobre dello scorso anno a Villa Nazareth è stato presentato il saggio della prof.ssa Emma Fattorini “Achille Silvestrini, la diplomazia della speranza” (Morcelliana, 2023). Emma Fattorini è docente ordinaria di Storia contemporanea presso l’Università Sapienza di Roma. È stata senatrice nella XVII legislatura. Tra i suoi libri: “Pio XI, Hitler e Mussolini” (Einaudi, 2007), “Germania e Santa Sede” (Il Mulino, 1992). A lei abbiamo chiesto un ricordo di don Achille e qual è il segno che ha lasciato nella storia.
L’intervista è stata pubblicata sul numero di dicembre 2023 della nostra rivista culturale
Lei ha avuto l’occasione di frequentare don Achille con una certa intensità, qual è il ricordo più caro che custodisce di lui?
Il ricordo che mi è più caro è legato a una dote, tra le tante, di don Achille e cioè la sua curiosità per l’altro o l’altra: la sua era una curiosità mai formale o di circo- stanza, e lo era specialmente per chi era fuori dagli schemi, in qualche modo irregolare, non ben incasellabile. Forse per una sorta di reazione dato che lui era ordinato, disciplinato, affidabile. Un po’ come era stato in gioventù per quello strano e bravo sacerdote che tanta influenza ebbe su di lui, Don Cornacchia. Un episodio che mi è caro fu quando ero allettata per una gravidanza difficile e don Achille, già cardinale, in alcune occasioni mi portava la comunione perché ero immobilizzata a letto. Era curioso della maternità, ma, insieme anche di cosa pensassi della situazione politica. Erano gli anni dell’Ulivo. E considerare una donna in attesa di un bambino non solo per quella sua condizione ma anche per le sue opinioni era una rarità. Nella cultura maschile di allora. La sua era una curiosità per la dimensione femminile, in anni di vera e propria misoginia, anche e forse persino e, direi soprattutto, nella cultura laica.
La nostra società è sempre di più attraversata da un sentimento di sfiducia nei confronti del futuro e da un preoccupante nichilismo soprattutto tra le giovani generazioni. Cosa possono insegnarci i valori testimoniati da don Achille in vita?
Le ragioni del nichilismo e di questa sfiducia sono tante ma non ultima è quella che i giovani, al di là della retorica di un sempre facile giovanilismo, non sono “guardati” per quello che sono. Non sono “visti” davvero. E qui torno al tema della curiosità, in questo caso, per i giovani non in senso superficiale, ma con gli occhi dell’interiorità. Lui era animato dalla volontà di esserci per loro, penso anche alla mia di generazione, quella che era giovane degli anni Settanta, poi disorientata dopo il crollo del comunismo. Così penso al senso della libertà nella formazione dei “suoi” giovani, venuti prima di voi, nel collegio universitario di Villa Nazareth, che lui amava infinitamente: una libertà volta a far crescere la verità interna a ciascuno senza imporre un modello dall’esterno, non forzando mai una scelta per aspettare piuttosto i tempi di maturazione, valorizzando le specifiche qualità di ciascuno.
L’azione diplomatica di don Achille era espressione di una paziente costruzione di un dialogo e di ascolto dell’altro, quanto fu complesso in un’epoca caratterizzata da contrapposizioni e chiusura?
Sembra paradossale ma questa attesa dei tempi di maturazione era un atteggiamento che trapassava nella sua intelligenza diplomatica, quella “dei tempi lunghi”, dei tempi della storia, quale lavorìo paziente per trovare un punto di incontro nel confronto con la realtà con- creta piuttosto che sui principi astratti. Una sorta di “teologia della grazia” che tanto deve ad Agostino Casaroli. Quanto di più lontano ci sia oggi dove sembra non esserci neppure il minimo spazio per la diplomazia se non quella astrattamente pattizia o di puro scambio. Quando va bene. Non una diplomazia che parte dall’ascolto dell’altro e dove il compromesso è frutto di una maturazione e non di un mero contratto di interessi posticcio e sempre fragilissimo perché retto sul ricatto. Pensiamo invece a quella di cui fu protagonista, insieme a Casaroli: la controversa strategia dell’Ostpolitik vaticana, con il successo dei trattati di Helsinki del 1° agosto 1975. Una strategia accusata di essere stata troppo morbida con i regimi comunisti (anche se il giovane Wojtyla ne capì la forza ‘contrattuale’). Di quel grande risultato la cosa che mi preme sottolineare è che l’insistenza sulla libertà religiosa non fu mai disgiunta dalla libertà di coscienza e così diventò la strada maestra per la difesa dei diritti umani. Ebbe un effetto dirompente perché logorò nel profondo quei regimi e alimentò il dissenso interno a quei paesi, come ricordava spesso citando la Cecoslovacchia e la Charta 77. Un altro esempio illuminante e profetico fu quando, in qualità di Prefetto delle chiese orientali, si preoccupò del loro nazionalismo (basti vedere il caso dell’Ucraina). E questo anche per un suo spiccato ecumenismo: ebbe rapporti caldi e ravvicinati con tutte le chiese orientali sparse per il mondo, arbitro e paciere delle loro divisioni e rissosità.
Alla luce della crescente conflittualità a livello internazionale, quanto è necessaria e attuale la “diplomazia della speranza” di Don Achille?
Alla domanda di cosa ci sia di attuale nella personalità e nell’agire di Silvestrini la risposta più facile sarebbe concludere amaramente che oggi ci sia ben poco, in effetti. La nostra è un’epoca che più lontana dal dialogo, dall’amicizia e dall’apertura non pare possa esserci. Quando invece ce ne sarebbe proprio un grandissimo bisogno. Eppure, esiste una continuità tra quella tradizione e quella perseguita oggi dalla diplomazia vaticana nella guerra russo-ucraina e nel terribile scenario medio-orientale. Certo oggi le sfide sono molto più difficili per un mondo divenuto multipolare, con la tendenza al ricostituirsi di nuovi-vecchi imperi. E del resto tanti problemi di oggi sono anche la conseguenza di come non furono affrontati i problemi in quegli anni. Per esempio, circa la transizione della fase che seguì il crollo del muro di Berlino. E poi ancora perché non ci fu una seconda Helsinki? •