di Angelo Tumminelli, PhD in Filosofia Morale e Docente di Filosofia e storia nei Licei
Il diritto all’educazione come forma di giustizia sociale
«La scienza e l’arte dell’educare (che è arte e scienza nel medesimo tempo) è tra le più difficili ad apprendersi e a praticarsi, perché posa sopra fatti poco sensibili e che si nascondono sotto mille forme, quali sono i fatti interiori dell’animo umano; e perché sta tutta nei mezzi di piegare la umana volontà; mezzi ignorati dai più, mezzi variissimi, mezzi il più delle volte sì lievi, che si disprezzano come inetti, mezzi soprattutto non agevoli e non cari, perché ripugnano alle passioni di chi li deve adoperare, e vogliono in lui le più difficili e le più provate virtù».
R. Lambruschini, Manifestode La guida dell’Educatore, 1835
Così si esprimeva nel lontano 1835 il sacerdote e pedagogista Raffaello Labruschini (1788 – 1873) a proposito della difficile arte di educare: l’educazione, infatti, per chi la pratica ma anche per chi è chiamata ad accoglierla, è una disciplina assai complessa perché riguarda le profondità dell’animo umano, i suoi desideri, le sue tensioni emotive, le sue speranze. Chi educa allora maneggia le parti più intime dell’essere umano e si assume la responsabilità di orientare le forze affettive dei propri allievi verso la pienezza dell’esistenza. Come più volte sottolineato dal filosofo Max Scheler (1874 – 1928) nei suoi scritti sull’educazione (Bildung), la pratica educativa va declinata come cammino di umanizzazione, come percorso di edificazione dell’umano che è in noi. Non è qualcosa di semplice ma si tratta di un percorso che, richiedendo fatica e sacrificio, intreccia l’esistenza del maestro con quella degli allievi alimentando un circolo dialogico di reciproco riconoscimento e di mutua collaborazione. Infatti, l’educazione è sempre iscritta all’interno di una relazione dialogica nella quale il maestro si rende modello esemplare e l’allievo si lascia orientare dalla testimonianza vivente di chi ha di fronte.
Oggi più che mai, in un contesto sociale fluido e sempre più manchevole di punti di riferimento educativi ed esistenziali, l’arte di educare diventa ancora più complessa, confrontandosi con sfide inedite e con problematiche nuove che richiedono strategie pedagogiche non improvvisate ed estemporanee, ma ponderate e specifiche. Allora, bisogna tornare a quell’arte di educare come strumento stesso per edificare l’umano, come mezzo relazionale per condurre le persone a scoprire la verità di se stessi ponendosi in un costante dialogo con l’alterità. D’altronde, come indica la stessa etimologia del termine, educare significa “condurre fuori”, “esprimere”, “portare alla luce” quell’umanità intima che ciascuno custodisce nel profondo del proprio sé e che è chiamato a manifestare nella pienezza. Ma un tale “portare alla luce l’umanità che è in noi” accade soltanto nell’evento dell’uscita da sé e dell’incontro con l’alterità che sta di fronte la quale suscita sempre una responsabilità, muovendo l’io a varcare i confini, spesso inespugnabili, del proprio sé per aprirsi al mistero dell’altro.
Per questo la pratica educativa è sempre cammino di dialogo e di confronto, fatto anche di incomprensioni e di difficoltà, ma capace, in fondo, di dischiudere l’umano nella sua più propria vocazione all’amore. In questo senso, l’educazione non va compresa come semplice istruzione, trasmissione arida di contenuti e nozioni (tanto più in un contesto digitalizzato in cui i meri dati sulla comprensione della realtà sono rapidamente accessibili con un click); essa deve essere declinata semmai come pratica di umanizzazione che consente agli allievi di trovare la propria umanità e di esprimerla nel massimo valore possibile. Allora, educare significa edificare l’umano, costruire ecosistemi di fraternità per dare senso all’essere nel mondo di ciascuno e per rendere tutti capaci di una vita esistenzialmente piena e, per questo, felice. Educare oggi, in un contesto abitato da chiusure, povertà e tentazioni manipolatorie (mediate anche dall’utilizzo indiscriminato delle tecnologie digitali), rappresenta non solo una responsabilità irrinunciabile nei confronti delle nuove generazioni ma anche una via esclusiva per riportare l’umano a se stesso, per edificare la pace e realizzare la vocazione più intima dell’umanità, quella di dischiudersi mediante l’incontro con l’altro.
Bisogna, quindi, riconoscere l’educazione (e non solo l’istruzione) come diritto fondamentale di ciascun essere umano perché solo mediante la pratica educativa ciascuno matura e sviluppa quegli strumenti affettivi ed intellettivi per orientare la propria esistenza verso la pienezza. Di fronte ad una società globalizzata che alimenta il divario educativo e che esaspera le povertà esistenziali delle persone, si comprende così tutto il valore e tutto il significato della Giornata Internazionale dell’Educazione che, voluta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, celebra ogni anno, il 24 gennaio, il ruolo dell’educazione per lo sviluppo e la crescita integrale dell’umanità. Infatti, senza una educazione inclusiva e di qualità, senza opportunità di percorsi scolastici che sappiano inverare queste dinamiche di umanizzazione, il rischio è quello di esasperare il ciclo di povertà lasciando indietro milioni di bambini, giovani e adulti. Non ce lo possiamo permettere, ne va della stessa umanità futura.
Quando un uomo si educa, infatti, non solo arricchisce se stesso incamminandosi verso la propria pienezza di esistenza, ma accresce l’umanità tutta manifestandola nel suo più profondo valore. Non è un caso allora che il diritto all’educazione sia stato sancito anche dall’obiettivo 4 dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite che, richiamandosi alla necessità di uno sviluppo sostenibile, afferma che «fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva e opportunità di apprendimento per tutti è la base per migliorare la vita delle persone e raggiungere lo sviluppo sostenibile». Includendo l’educazione tra i pilastri del futuro dell’umanità, l’ONU ha così riconosciuto il diritto all’educazione come diritto fondamentale della persona, capace non solo di promuovere la crescita personale ma di realizzare società più giuste, eque e inclusive, società di pace e fratellanza.
Sfide educative globali
Se è vero che da sempre il compito educativo è stato impervio e di difficile realizzazione (basti pensare al tentativo dei filosofi e dei pedagogisti di tutti i tempi), con l’avvento della società digitale e globalizzata del post-contemporaneo si sono prodotti dei cambiamenti antropologici talmente radicali che si impongono sfide educative del tutto nuove alle quali non è facile rispondere. I vertiginosi processi socio-culturali del mondo di oggi, dai fenomeni migratori all’avvento delle tecnologie digitali e alla globalizzazione mediatica, hanno comportato un vero e proprio cambiamento di paradigma antropologico per il quale l’umanità, rischiando di smarrire i propri confini identitari, si caratterizza per una condizione “tecno-liquida” (cfr. T. Cantelmi Tecnoliquidità. La psicologia ai tempi di internet: la mente tecnoliquida, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013) in cui diventa sempre più difficile stabilire legami autentici e edificare tessuti comunitari. La cultura narcisista del consumismo, almeno nei paesi occidentali, ha diffuso anche una mentalità manipolatoria nei confronti dell’altro che atrofizza le capacità relazionali chiudendo il sé individuale entro i confini ristretti dei propri bisogni materiali.
Al cospetto di questo scenario preoccupante, il ruolo di educatori e maestri è quello di alimentare una cultura dell’alterità, sensibilizzando giovani e adulti ad assumere uno sguardo responsabile verso le povertà e verso le periferie esistenziali di cui non è semplice accorgersi. Uscire da sé per guardare l’altro è il grande fine dell’azione educativa che si compie come dinamismo di relazione reciproca mediante il quale l’allievo “porta alla luce” se stesso scoprendosi come responsabile dell’altro che gli viene incontro. In questo senso, come sottolinea papa Francesco, occorre un cambio di prospettiva sull’umano ma «ogni cambiamento, però, ha bisogno di un cammino educativo che coinvolga tutti. Per questo è necessario costruire un “villaggio dell’educazione” dove, nella diversità, si condivida l’impegno di generare una rete di relazioni umane e aperte. Un proverbio africano dice che “per educare un bambino serve un intero villaggio”. Ma dobbiamo costruirlo, questo villaggio, come condizione per educare» (Messaggio del Santo Padre Francesco per il Patto Educativo Globale, Vaticano 12 settembre 1919).
In un mondo in continua trasformazione e attraversato da molteplici crisi riconducibili all’umano (economica, educativa, affettiva), occorre allora edificare un cammino educativo comune che sappia riconoscere il valore dell’umanità nella capacità di entrare in relazione con gli altri ovvero nello sbilanciamento verso l’altro come realizzazione del massimo potenziale personale. In questo senso, giunge fino ai nostri giorni il monito del filosofo Jaques Maritain (1882 – 1973) il quale, richiamando la necessità di un “umanesimo integrale”, suggerisce di guardare all’essere umano come realtà materiale e spirituale al tempo stesso che sappia far interagire cuore, mente e mani: il cuore come sede della vita affettiva, la mente come capacità di comprensione razionale della realtà e le mani come simbolo di una operatività concreta e di una progettualità esistenziale. Da questa prospettiva l’essere umano educa se stesso nella misura in cui esprime la propria umanità come impegno civile, come responsabilità sociale nei confronti di sé stesso e degli altri, contribuendo così ad edificare una società di giustizia e di pace.
Come indicato sempre da papa Francesco, bisogna «avere il coraggio di mettere al centro la persona. Per questo occorre siglare un patto per dare un’anima ai processi educativi formali ed informali, i quali non possono ignorare che tutto nel mondo è intimamente connesso ed è necessario trovare – secondo una sana antropologia – altri modi di intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso. In un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto» (Messaggio del Santo Padre Francesco per il Patto Educativo Globale, Vaticano 12 settembre 1919).
Educare oggi, allora, è un atto di responsabilità ma anche un atto di amore: l’educazione, infatti, sottrae le persone dalla tentazione di rimanere chiuse in se stesse aprendole alla dinamica del servizio e della solidarietà nei confronti di coloro che la società consumistica considera da scartare e marginalizzare. L’educazione è un atto di speranza verso l’umano: essa spezza il circolo del pessimismo alimentando, invece, percorsi di apertura e di umanizzazione. Attraverso l’educazione, l’umanità può allora scoprirsi capace di amare, in grado cioè di rompere le barriere del solipsismo per aprirsi al mistero dell’altro. È in quel mistero che ciascun essere umano può ritrovarsi tale, realizzando la propria più intima felicità e divenendo fino in fondo se stesso.
Roma, 24 gennaio 2023
Giornata Internazionale dell’Educazione
Foto di Taylor Flowe su Unsplash