Secondo le Nazioni unite, al mondo esiste un significativo e persistente divario di genere quando si parla di accesso alle discipline Stem, ovvero Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica. In Europa, le studentesse universitarie delle suddette discipline rappresentano solo il 25% del totale degli iscritti e se si guarda alle posizioni apicali all’interno delle università, le percentuali scendono ancora. Per riconoscere il ruolo fondamentale che le donne e le ragazze svolgono nella scienza e per promuovere il loro pieno ed equo accesso nel mondo scientifico, nel 2015 l’Assemblea Generale delle Nazioni unite ha voluto istituire la Giornata internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza che ricorre l’11 febbraio di ogni anno.
Ma qual è la situazione in Italia? Ne abbiamo parlato con Luisa Torsi, professoressa ordinaria di chimica all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, adjunct professor presso l’Åbo Akademi University in Finlandia, nonché vice presidente del consiglio scientifico del Cnr.
Nel 2010 Luisa Torsi è stata insignita del premio H.E. Merck, prima donna ad aver ricevuto questo riconoscimento internazionale. Nel 2019 le è stato conferito il Distinguished Women Award dall’International Union of Pure and Applied Chemistry – IUPAC. Mentre nel 2021 le è stata attribuita la Wilhelm Exner Medal, il prestigioso riconoscimento (assegnato negli anni anche a 23 premi Nobel) conferito dalla Austrian Trade Association a scienziati e ricercatori, che si sono distinti per la portata economica e industriale dei loro studi.
Su nomina ministeriale ha ricoperto il ruolo di Esperta nel Comitato Italiano di Programma di Horizon 2020. Attualmente, è Rappresentante Nazionale per le azioni Marie Skłodowska-Curie nel Comitato di Programma per Horizon Europe. È stata anche l’unica donna presidente della European Material Research Society, la più grande della categoria in Europa. La prof.ssa Torsi è inoltre Presidente del MEDISDIH S.c.ar.l., evoluzione del Distretto Tecnologico della meccatronica fortemente coinvolto nella promozione di innovazioni di prodotto e/o processo industriali che integrano i progressi conseguiti dalle tecnologie digitali a supporto delle tecnologie multidisciplinari meccatroniche.
Professoressa Torsi, qual è la situazione in Italia in merito al divario di genere nelle discipline Stem e come si posiziona il nostro paese rispetto agli altri paesi europei?
Le statistiche per l’Italia sono abbastanza in linea con quelle europee. Non abbiamo una situazione molto più grave, a parte qualche deviazione come il divario Nord-Sud, che non è trascurabile, e il divario per censo. In Italia, in realtà c’è un gap ancora più ampio e riguarda il basso numero complessivo di studenti delle discipline Stem. Ma se guardiamo al genere, le ragazze sono ancora meno dei ragazzi. Inoltre, i figli di famiglie meno abbienti tipicamente hanno più lacune nelle discipline Stem rispetto ai figli delle famiglie più benestanti. Il divario di genere, inoltre, è legato anche ad un retaggio culturale che vede le donne meno propense a sviluppare competenze di logica. Il formalismo viene visto come qualcosa di freddo, di distante e si pensa che le donne siano più propense a seguire percorsi nei quali siano più coinvolte emotivamente. Questo tipo di retaggio porta le ragazze a pensare che acquisire queste competenze non sia così importate.
Oggi in Europa le statistiche ci dicono che ai corsi di studi delle discipline Stem si iscrive circa il 25% di ragazze, contro il 70% dei ragazzi. Anche se sappiamo bene che al corso di studi di matematica abbiamo un numero elevato di donne, in ingegneria prevalgono ancora gli uomini. Se poi andiamo a vedere le posizioni apicali, quindi i docenti e i professori ordinari delle discipline Stem, le donne rappresentano soltanto una piccola percentuale che si aggira attorno all’15-18%. Siamo veramente pochissime.
Senza nulla voler togliere alle discipline umanistiche, è nell’idea di un nuovo umanesimo avere dei cittadini che abbiano al contempo competenze umanistiche, giuridiche ed economiche ma anche tecnico-scientifiche; che lo sviluppo della personalità possa passare attraverso l’acquisizione di conoscenze e competenze che coprono un po’ tutto l’arco della conoscenza umana. In questa idea è chiaro che diventa fondamentale stimolare molto di più l’acquisizione delle competenze Stem. Senza dimenticare l’impatto sul possibile sviluppo della società civile che diventa sempre più incentrata sulle tecnologie: avere cittadini che non sono in grado di gestirle anche ad un livello elementare, certamente sarà un problema perché potrebbe diventare una comunità in qualche modo isolata, se non emarginata. Sempre più servizi, infatti, vengono erogati attraverso delle app o comunque con sistemi digitali. E l’essere un nativo digitale, cioè saper fare un po’ di operazioni sul cellulare, in realtà non significa capire come funziona un’applicazione e seguirla in tutti i dettagli. Inevitabilmente, le cognizioni Stem fanno da background anche per contribuire all’alfabetizzazione digitale. Il fatto che queste basi manchino potrebbe verosimilmente creare dei problemi.
Professoressa, lei insegna a Bari, la sua città natale. Da anni al Sud si assiste ad una fuga di giovani verso altre regioni, spesso del Nord. È cambiato qualcosa in questi ultimi anni? Il tessuto imprenditoriale e accademico è in grado mantenere sul territorio i giovani laureati?
Questo è un discorso che mi sta particolarmente a cuore e noi facciamo di tutto per attrarre e convincere i nostri studenti a rimanere a lavorare con noi. Nel mio gruppo, per esempio, abbiamo avuto diversi studenti che dopo un’esperienza fuori hanno scelto di tornare e lavorare con noi e questo ci fa molto piacere.
Sì, c’è un problema che riguarda la fuga dei giovani da territori che sono collocati più a Sud della nostra penisola. Tuttavia, in questo momento, ci sono delle aziende del nostro territorio, soprattutto del comparto informatico e digitale, che hanno aperto una serie di posizioni a tempo indeterminato, ovviamente nell’ambito delle discipline Stem, che non riescono a coprire. Parliamo di centinaia di posizioni. Questo ci fa capire che la situazione sta cambiando anche qui al Sud, anche grazie a politiche regionali incentrate proprio a migliorare l’attrattività del nostro territorio, perché questo è un punto fondamentale per limitare a una frazione fisiologica il numero di giovani che lascia questi territori.
Più in generale, non è tanto e solo il dire agli studenti di rimanere, perché poi ognuno, soprattutto nell’ambito della scienza, deve andare dove lo porta il cuore. Non si può dire ad un giovane – per lo meno io non me la sento – di limitarsi a questo territorio, perché devono restituire qualcosa. Noi non dobbiamo trattenere nessuno. Chiunque, soprattutto nell’ambito della ricerca e della scienza, deve avere l’opportunità di andare dove vuole e dove ci sono le condizioni migliori per sviluppare il proprio potenziale. Invece, va assolutamente migliorata l’attrattività del nostro territorio. Dobbiamo attrarre giovani: che siano i nostri o che vengano da qualunque parte del mondo, non fa differenza. In questo momento, invece, sono di più i giovani che lasciano di quelli che decidono di stabilirsi qui. Tuttavia, devo dire che qualche segno positivo l’ho potuto vedere e seguendo un po’ più da vicino le politiche di regione Puglia relativamente a questi aspetti, si sta facendo moltissimo in questa direzione.
Qual è stata la sua esperienza di donna nel mondo accademico e della ricerca scientifica. Si è sentita mai discriminata?
Le discriminazioni sono sempre frutto di situazioni subdole. Sentire o aver sentito negli anni su di sé l’effetto di una discriminazione non è banale. Io stessa, così come moltissime donne, ho la tendenza a rispondere “no, non mi sembra di essere mai stata discriminata” o per lo meno non è mai successo che sia stato così palese da renderlo evidente. In realtà sono le statistiche che ci dicono che siamo discriminate perché in questo momento, in qualunque settore della società civile, nella migliore delle ipotesi le posizioni apicali sono occupate al 25% da donne, mentre tutti gli altri sono uomini.
Eppure il mondo del lavoro è popolato al 50% da donne. Addirittura le statistiche europee ci dicono che le studentesse universitarie sono il 55%, mentre gli studenti universitari sono il 45%. Quando si tratta di parlare di studentesse o di posizioni base, come il primo impiego o l’incarico di ricercatore, quindi, abbiamo una preponderanza di donne. Sicuramente si laureano più donne rispetto agli uomini a livello europeo, nonostante questo il problema è che poi, nelle stanze dei bottoni e là dove si prendono le decisioni importanti, c’è una sparuta minoranza di donne.
Evidentemente ci sono dei meccanismi di progressione di carriera o di selezione delle posizioni apicali che sono discriminatori. Le statistiche oggettive vanno tutte in questa direzione. Inoltre, secondo le Nazioni unite, dal 2013 in poi, il progredire dell’emancipazione femminile nel mondo si è arrestato e sta tornando indietro. D’altro canto ci sono degli evidenti segnali non soltanto in alcune regioni del mondo, si pensi per esempio all’Afghanistan, dove c’è una recrudescenza di alcune posizioni, ma lo abbiamo visto anche negli Stati uniti dove una serie di diritti acquisiti sono stati rimessi in discussione. Siamo in un momento molto delicato.
In Italia, l’esperienza della legge Golfo-Mosca ci ha mostrato che le quote di genere imposte nei consigli di amministrazione delle società partecipate, a distanza di dieci anni, hanno portato a netti vantaggi e migliorie in questo tipo di aziende. Per questo motivo, oggi è ancor più fondamentale avere una piena consapevolezza di quello che dicono le statistiche e della direzione nella quale stiamo andando.
Foto di ThisisEngineering RAEng su Unsplash